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Racconti brevi

Micky

Micky

Micky spense la luce e stava per chiudersi la porta del bagno alle spalle, quando decise che no, non era ancora pronto. O meglio, gli mancava quell’ultima spruzzata di coraggio. Rimase immobile sulla soglia per qualche secondo, poi si voltò, schiacciò l’interruttore, poggiò le mani al lavandino e fissò il suo riflesso nello specchio, dritto negli occhi.

Ce la puoi fare. È il momento.

I capelli gli ricadevano sull’addome come lunghissimi spilli neri, fino a coprire l’ultima falange del dito medio stampato sulla t-shirt blu.

Girò la manopola del rubinetto, bevve un sorso d’acqua e si sciacquò il viso.

Tornò in camera e si guardò in giro con aria malinconica. Vide la sua prima chitarra. Una Epiphone Les Paul usata color rosso ciliegia. Sorrise. Il suono cupo che ne usciva faceva a pugni con il glam rock che voleva suonare lui, ma era pur sempre una chitarra. La sua chitarra, che ora, cinque anni più tardi, se ne stava appesa alla parete, tra un poster dei Poison e uno dei Def Leppard.

Agguantò la custodia della Gibson SG nuova di zecca (regalo di sua madre, stavolta, per i suoi diciotto anni; in cambio Micky sarebbe dovuto uscire dal liceo con “voti decenti”, il che significava almeno 75, meglio se 80) e lo zaino che aveva preparato la sera prima, se li mise entrambi sulle spalle e uscì senza farsi vedere.

 

Fuori pioveva a dirotto e il vento era così violento che l’ombrello diventava non solo inutile, ma anche d’intralcio. Micky afferrò il manico con tanta forza che la mano ebbe uno spasmo, e tentò di mantenerlo in equilibrio mentre quello se ne svolazzava da tutte le parti, lasciando che la pioggia gli inzuppasse i vestiti.

La tasca dei suoi jeans vibrò. Ne estrasse il telefono quel tanto che bastava per leggere la notifica sullo schermo, ma i capelli gli fluttuavano davanti al viso coprendogli la visuale, e rendevano complicata un’operazione tanto semplice come guardare un display.

Impugnò meglio l’ombrello con la mano sinistra e si passò il braccio sulla faccia per spostare i capelli. Maledisse sé stesso per non averli legati, tirò su la spalla destra per sistemare meglio la custodia della chitarra e lo zaino – che continuavano a scivolare – si maledisse di nuovo per essersi cacciato in quella situazione e finalmente riuscì a estrarre il cellulare dalla tasca.

Era un messaggio di Nic: DOVE CAZZO SEI? MUOVITI!!

Spinse di nuovo il telefonino nella tasca e ripeté tutte le operazioni di prima, perché lo zaino e la chitarra erano sul punto di scivolargli dalle spalle, l’ombrello si dimenava più di un cavallo imbizzarrito e il suo volto era di nuovo coperto dai capelli.

Lo sai che te le stai raccontando, vero?

“Fanculo!” sbottò, e mollò il manico. L’ombrello prese quota. Micky si scostò i capelli dal volto e guardò su. Faticava a tenere aperti gli occhi per via della pioggia, ma riuscì a vederlo agitarsi in aria come fosse posseduto da una forza malvagia, per poi sparire tra gli alberi. Sciolse i muscoli della mano, abbassò lo sguardo e riprese a camminare. Era tardi. E il freddo gli penetrava nelle ginocchia attraverso i buchi dei jeans strappati.

 

Arrivò al DriveWay alle 18.15, si riparò sotto la tettoia e per prima cosa si assicurò che la sua Gibson fosse asciutta. Lo era. Tirò fuori una sigaretta e si strizzò i capelli specchiandosi nella vetrina, cercando al tempo stesso di scorgere i suoi amici nel locale attraverso il vetro.

“Cristo Santo! Che ti è successo? Sei arrivato a nuoto?”

Si voltò. Era Eddy, il suo bassista. Lo stava squadrando e rideva. Micky gli porse il braccio e si salutarono alla loro maniera: una stretta di mano e un battito di pugni.

“Zitto va! Avevo l’ombrello ma l’ho mollato…era inutile, con ‘sto cazzo di vento! Mi fai accendere? Ho la mano bagnata e non riesco…”

Eddy scosse la testa, fece scattare il suo zippo e lo avvicinò a Micky. “Devi farti la macchina”

“Si, certo…la paghi tu?”

“Come no! Ce ne facciamo una di gruppo. Anzi, ci prendiamo un pulmino Volkswagen e lo usiamo per andare in tour!”. Fece una breve pausa e indicò la sigaretta di Micky. “Muoviti a finirla, Jack si sta incazzando perché non arrivavi mai”

“Jack si deve rilassare. Non è la prima volta che suoniamo qui. Mi ci vogliono dieci minuti per il soundcheck. Lo sa.”

“Si, ma stasera è la prima volta che ci pagano e siamo tutti un po’ su di giri”.

Micky fece un tiro e annuì.

“Spero che non sia l’ultima…sono nella merda, Eddy. Mia madre-”

“Finalmente! Cos’è, ti eri perso?” si girò e vide Jack che usciva dal DriveWay. Gli accennò un saluto sollevando la testa.

Eddy gli diede una pacca sulla spalla e si avviò all’ingresso. “Tocca a me. Tu sei il prossimo. Preparati”.

Annuì ancora.

“Non avrai mica intenzione di fare il soundcheck conciato così, vero? Rischi di pigliarti una scossa che ci rimani secco! Sai che effetti speciali!”, rise Jack.

Micky abbozzò un sorriso. “Ho un cambio nello zaino”

Digli anche perché hai quel cambio nello zaino.

“E allora spegni quella merda e vai a cambiarti, che sembri un pulcino spennato…è tardi!”

Micky provò a incastrare il mozzicone acceso tra il pollice e il medio per scagliarlo lontano, ma prima che completasse l’operazione quello gli scivolò tra le dita e cadde per terra.

“Vado, vado. Rompipalle”. Gli lanciò un’occhiataccia, ma gli sorrise per smorzare la tensione. Raccattò zaino e chitarra ed entrò.

 

Salutò la barista e il proprietario con un cenno della mano e proseguì dritto fino al camerino. I piedi navigavano nelle Converse grigie. Se le sfilò e appese le calze allo schienale della sedia, sperando che servisse a farle asciugare prima.

Lanciò il telefonino sul tavolo, accertandosi che atterrasse con lo schermo rivolto in basso: sapeva che sua madre lo avrebbe chiamato e non voleva occuparsene. Non adesso.

Si spogliò completamente per cambiarsi e si stava infilando la maglietta di ricambio quando sentì gridare il suo nome al microfono.

Si rimise le scarpe, appese gli indumenti fradici sulla sedia di fianco alle calze, prese la Gibson e si diresse verso il palco, dove Nic e Eddy stavano strimpellando a casaccio per ammazzare l’attesa. Quando salì, Nic smise immediatamente di pestare sulla grancassa e avvicinò la bocca al microfono che gli stava accanto

“Porco cazzo Micky! Che hai fatto ai capelli? Sembri un mocio!”

“Ah. Ah. Divertente, Nic. Fatti un giro fuori e poi vediamo se ridi ancora!”

“Guarda che ci chiamiamo White Rocker, non Wet Rocker…” disse Nic.

“Ragazzi, sul serio…come fate voi ad essere asciutti? Avete i capelli più lunghi dei miei e sembrate appena usciti da un parrucchiere!”

“Mai sentito parlare di elastici per capelli?”  scherzò Eddy.

“O delle felpe col cappuccio?” gli fece eco Nic.

“Va beh ragazzi…avete vinto. Basta cazzeggiare, lasciatemi collegare la chitarra”.

 

Il soundcheck fu breve e senza intoppi. Una volta terminato, Micky andò in bagno e riuscì ad asciugarsi i capelli con il getto di aria calda di fianco ai lavandini.

Pensò a sua madre. A quell’ora ormai lo sapeva.

“Dì a tua madre che oggi la chiamo”, gli aveva detto la Lepardi, a scuola. Immaginò la faccia confusa della madre mentre l’insegnante le comunicava che suo figlio non era stato ammesso agli esami di maturità. Scacciò l’immagine e inghiottì una Tachipirina con un sorso d’acqua.

 I White Rocker mangiarono una pizza bruciacchiata offerta dal locale e alle dieci erano pronti a salire sul palco.

“Ragazzi…dobbiamo fare scena, se vogliamo che ci chiamino ancora” disse Jack.

“Sì, sì…lo sappiamo…” rispose Eddy roteando gli occhi.

“Lo so che tu lo sai, Eddy. Mi riferivo a lui” e puntò un dito contro Micky. “Oggi non mi sembra molto in forma, e non va bene”.

“Io? Che ho fatto?” chiese Micky.

Digli cos’hai fatto per la band. Digli che tua madre ti avrebbe confiscato la Gibson, e addio White Rocker, addio serate pagate, addio alla carriera musicale…

“Tanto per cominciare sei arrivato in ritardo. Fradicio. E al soundcheck hai sbagliato l’attacco di un paio di pezzi senza neanche accorgertene”.

Micky si guardò le scarpe e annuì “è che…è una giornata del c-”

“Non me ne frega niente. Non adesso. Dopo lo show parliamo, se vuoi. Ma vedi di non rovinarci la serata, ok?”

“E dai, Jack! Così non lo aiuti…smettila di fare il cazzone!” intervenne Nic.

Ma soprattutto, digli che hai bisogno un posto dove dormire.

“Basta!” si ritrovò a urlare “Jack ha ragione. Oggi è importante. Soprattutto per me. Se non sfondiamo con la musica non so cosa fare. Non ho più alternative, capite?”

“Ehm… no. Ma ne parliamo dopo. Adesso saliamo su quel palco e facciamo il miglior show della nostra vita. Petto nudo, cazzi duri! Pronti?” sentenziò Jack.

Annuirono in sincrono e salirono sul palco.

 

I primi cinque brani filarono alla grande. Poi fu il turno di Shout it out loud.

Micky provava a “fare scena” – come aveva suggerito Jack – muovendo ritmicamente la testa su e giù e sfoggiando la sua cascata di capelli, e nel frattempo tentava anche di prendere tutte le note. Intravide Eddy, alla sua sinistra, che gli si avvicinava, anche lui scuotendo la testa come se qualcuno stesse cercando di squartarlo.

Una fitta alla mano gli fece perdere la presa sulla chitarra, che si inclinò bruscamente.

Micky la recuperò e fece per riprendere a suonare, ma qualcosa lo bloccava. Tentò di fare un passo, e si accorse che non era lui, a essere bloccato, ma la chitarra. Diede uno strattone, e vide Eddy contorcersi, con la testa inclinata. Gli parve anche di sentire delle urla, ma la musica era troppo forte.

Passò qualche altro istante prima che capisse cosa stava succedendo. Alcune ciocche dei capelli di Eddy si erano incastrate nella paletta della Gibson. Non poteva certo interrompere la canzone e aiutarlo a districarsi, e non gli venne in mente nient’altro da fare se non tirare. Diede altri due violenti strattoni e fu libero. Una ciocca di capelli biondi pendeva dalla paletta della chitarra e Eddy era riverso a terra, ma entrambi continuarono a suonare fino alla fine del brano.

Micky aiutò Eddy ad alzarsi e notò il buco grosso quanto una moneta da un euro che gli aveva procurato in testa. I capelli intorno al buco sembravano bagnati e appiccicosi, ma con le luci del palco era difficile capire se si trattasse di sangue o di sudore.

“Tutto bene, Ed?” gli chiese, dandogli una pacca sulla spalla.

Ed non rispose. Si limitò a guardarlo in silenzio senza sorridere. Non si avvicinò più a Micky per tutta la durata del concerto.

Come il resto della band.

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Rudy

Rudy

Percepì una sensazione di calore intenso poco sopra al ginocchio sinistro. Allungò il braccio e si colpì la gamba con la mano, come per schiacciare una zanzara, ma il calore non cessò e Rudy si costrinse ad aprire gli occhi, giusto un pochino.

La luce che penetrava dalla vetrata a tre porte lo abbagliò. Non aveva ancora avuto il tempo di metterci delle tende. Richiuse gli occhi e si sporse verso l’altra metà del letto per sfiorare il corpo nudo di Angela…o si chiamava Alice? Era sicuro che il nome iniziasse con la A, ma proprio non riusciva a ricordarlo.

Al posto della ragazza trovò un bigliettino con scritto un numero di telefono. Firmato “Adele”. Lo accartocciò e lo lanciò lontano.

Sentì ancora il ginocchio bruciare. Lo guardò e si accorse che era soltanto il sole, a scaldarlo. Si stupì di quanto fosse caldo la mattina presto. La sveglia non era ancora suonata, ma il sole sembrava già alto. Troppo alto.

Lanciò un’occhiata all’orologio sul comodino e gli fu tutto chiaro. Le 9.04. Era in un ritardo spaventoso.

Si alzò di scatto, aprì l’armadio e sfilò una camicia da una gruccia a caso. Corse in cucina per prepararsi un caffè. Il lavandino traboccava di piatti sporchi, e le uniche tazzine pulite erano probabilmente rimaste in uno dei tanti scatoloni ancora da sistemare. Rinunciò. Si vestì al volo, afferrò il cellulare, prese la valigetta che aveva ricevuto in regalo per essere stato il miglior venditore per tre mesi di fila, e uscì.

Si diresse a passi rapidi verso la macchina e fece per chiamare il suo capoarea per avvisare del ritardo, ma si ritrovò a fissare lo schermo nero su cui compariva soltanto il rettangolino rosso della batteria scarica.

Salì sulla sua BMW nuova di zecca, collegò il cellulare al caricabatterie da auto e partì sgommando.

Quattro minuti dopo si ritrovò imbottigliato nel traffico a imprecare contro Dio per la giornata di merda appena iniziata. Telefonò a Marco, il capoarea, che gli urlò di recarsi direttamente dal cliente delle 10, senza passare dall’ufficio.

L’orologio dell’auto segnava le 9.27. Decise di chiamare il sig. Carmelli per spostare l’appuntamento di qualche minuto. Doveva persuaderlo a firmare un’assicurazione sulla vita che avrebbe fatto guadagnare a Rudy qualche centinaio di euro, e aveva bisogno almeno di un caffè per gestire la trattativa al meglio.

Abbassò il finestrino, si accese una sigaretta e chiese all’assistente virtuale di comporre il numero del Sig. Carmelli.

Mentre il telefono squillava notò un barbone a qualche metro di distanza che si giostrava tra la lunga fila di auto in sosta al semaforo. Si reggeva a malapena su due pezzi di legno che usava come stampelle. Il piede storto e senza dita in bella mostra per impietosire gli automobilisti e convincerli a dargli qualche spicciolo. Rudy provò un conato di disgusto e distolse lo sguardo.

Scattò il verde e diede un paio di colpi di clacson per sveltire le auto davanti alla sua. Il sig. Carmelli rispose, dicendogli che non poteva posticipare. O alle 10 o il giorno successivo. Mi dispiace.

Scattò il rosso. Scattarono le 9.31. Rudy fece scattare la chiusura automatica delle portiere quando si accorse che il mendicante poliomielitico era a due passi da lui e gli porgeva il bicchierino di plastica, blaterando qualcosa.

Lui guardò altrove e gli fece segno di no, di allontanarsi.

Non la capiva, quella gente. Che si trovasse un lavoro, invece di pesare sulla società e sulle persone oneste come lui.

Il polio era ormai davanti al suo finestrino.

Scattò il verde. Rudy iniziò a giocare con l’acceleratore, spazientito.

Il bicchierino di plastica era talmente vicino che quasi gli tintinnava nell’orecchio. Ci lanciò dentro il mozzicone acceso e partì a tutta velocità, sganasciandosi in una risata isterica.

Osservò il polio dallo specchietto retrovisore. Era caduto, ma gli sembrò che lo stesse fissando mentre gesticolava e blaterava convulsamente, come facevano le streghe, nei film, quando maledicevano la gente.

Parcheggiò davanti alla casa del sig. Carmelli alle 9.58. Il cielo si era annuvolato e non faceva più così caldo. Agguantò la giacca che giaceva sul sedile del passeggero e uscì.

Si ripeté mentalmente la menata che avrebbe rifilato al cliente: non è una spesa ma un investimento, sono solo 130 euro al mese, deve firmare per il bene dei suoi figli, gli incidenti possono capitare e bla bla bla. Crea il bisogno e fallo sentire in colpa. Non accennare al fatto che se muore tra più di cinque anni nessuno vedrà mai un centesimo.

Bene. Era pronto. Suonò il campanello.

Il sig. Carmelli lo fece accomodare e si offrì di fargli un caffè. Rudy aveva appena tirato fuori il contratto da proporgli quando il sig. Carmelli si portò una mano sul petto e si accasciò a terra. Rudy rimase impietrito qualche istante mentre sentiva la moka borbottare in cucina. Chiamò il sig. Carmelli e provò a smuoverlo con un piede. Non udendo risposta, si accovacciò e gli mise due dita sotto il naso. Non respirava più.

Quelli dell’ambulanza l’hanno schedato come “infarto fulminante”, riferì a Carlo, il suo collega. Gli disse che Carmelli stava per firmare quando era successo, e così gli era saltato il contratto.

Si trovavano al bar per pranzo, anche se lui non aveva fame. Si erano appena seduti e Carlo stava addentando un pezzo di pane. Fece per rispondergli qualcosa, ma iniziò a tossire e la sua faccia si gonfiò. Gli diede qualche pacca sulla spalla per fargli sputare il panino che gli si era incastrato in gola, urlò a qualcuno di aiutarlo, ma non ci fu abbastanza tempo.

Quelli dell’ambulanza l’hanno schedato come “soffocamento da cibo”.

Rudy, che non aveva mai assistito alla morte di nessuno durante i suoi ventitré anni di vita, era sconvolto. Aveva perso la giornata di lavoro, era tornato a casa e si era buttato sul letto. Si sentiva a pezzi. Fuori la pioggia scrosciava. Milioni di pensieri gli affollarono la mente; ripercorse gli eventi della giornata da quando si era svegliato e gli occhi gli si fecero pesanti. Si addormentò con l’immagine del polio che agitava il bicchierino di plastica fissata in testa.

Si svegliò quando era già buio. Si affacciarono alla sua mente le immagini del sig. Carmelli, di Carlo, del polio, di Agata. Agata! Il foglietto col suo numero doveva essere ancora appallottolato da qualche parte. Decise di telefonarle. Non gli andava proprio di stare da solo.

Adele (per fortuna aveva firmato il biglietto, risparmiandogli una figuraccia), suonò il campanello alle 21.30. Si era fermata a prendere due pizze. I cartoni erano un po’ bagnati per via della pioggia, e le pizze erano ormai quasi fredde, ma a Rudy andava bene così, tanto non aveva fame. La abbracciò forte. Era felice di avere compagnia.

Prima di sedersi a tavola lei andò in bagno per lavarsi le mani, e non ne uscì per dieci minuti buoni.

Quando Rudy andò a controllare se stesse bene, la trovò riversa sul pavimento con un rivoletto di sangue che le scorreva lungo la guancia.

Quelli dell’ambulanza la schedarono come “overdose da farmaci”.

Rudy era distrutto. Senza contare che iniziavano a sospettare di lui. Nessuno glielo aveva detto chiaramente, ma quelli dell’ambulanza erano al corrente delle chiamate che aveva fatto al 118. Tre morti in un solo giorno. Tutti mentre erano con lui.

Ma non aveva senso! Lui non aveva fatto niente. Gli erano semplicemente morti davanti. La testa gli pulsava forte. Si sentiva come se un martello pneumatico gli stesse attraversando il cervello.

Si sforzò di trovare un nesso. Aveva visto altre persone, quel giorno, che erano ancora vive, per quanto ne sapeva lui. Il barista, tutti quelli dell’ambulanza, il polio…lo rivide mentre gli gesticolava contro, e si ricordò di averlo paragonato alle streghe che lanciano maledizioni…e se lo avesse maledetto? Scacciò il pensiero. Era impossibile. Forse stava diventando pazzo.

Trascorse i due giorni successivi a letto. Non gli andava di uscire, di vedere gente. Doveva chiarirsi le idee. Ripercorse mentalmente i fatti di quel giorno più e più volte. Li analizzò. Li scrisse.

Le persone che erano morte avevano trascorso con lui più tempo, rispetto a quelle rimaste vive. E lui le aveva guardate negli occhi.

Tutto era iniziato dopo che aveva lanciato il mozzicone nel bicchierino del polio…e quando sarebbe finito? Quanti morti, ancora? Come avrebbe potuto continuare a vivere?

Si alzò dal letto e si diresse in bagno. Aprì il rubinetto, si sciacquò il viso e lasciò scorrere l’acqua.

E quanto tempo doveva guardare una persona, per farla morire? Sospirò a lungo. Poi sollevò la testa verso lo specchio e si fissò dritto negli occhi.

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Una fine o un inizio

Una fine o un inizio

Si sentì abbracciare. Strano, eppure la sensazione era proprio quella. Ed era piacevole. Inspiegabilmente provava gioia e così chiuse gli occhi e si abbandonò. Percepiva una brezza tiepida che gli carezzava il corpo, portando con sé pace. Pace e gioia. Era meraviglioso. Gli vennero i brividi e si perse dentro quelle sensazioni.

Si dimenticò di se stesso e si lasciò cullare. Nulla aveva importanza, non più. Lui non esisteva più. Era fuso insieme alla Gioia, alla Pace, all’Amore.

Vide un fascio di luce discendere verso di lui, così luminoso da costringerlo a coprirsi gli occhi con il palmo della mano, ma non così accecante da impedirgli di sbirciare tra le dita. La luce scese fino ad avvolgerlo.

“Il raggio di Dio” pensò. “È venuto a prendermi”.

Fuso insieme a Dio.

Si sentì sollevare. Si sentì Gioia, Pace, Amore. Si sentì vivo.

“È questa la fine?” chiese.

“O è questo l’inizio?” si sentì rispondere da una voce angelica. “Che differenza fa?”

Si sentì Uno con tutto.

 

Il corpo non ce l’aveva più già da tempo. Due o tre settimane. O almeno, così aveva pensato. Il tempo, nel luogo in cui si trovava quando era sceso il raggio di Dio, non funzionava esattamente come nel mondo reale. Ma era così reale anche quel mondo che era difficile capire come stavano le cose. Per esempio, ci aveva messo un po’ – non sapeva quanto – a rendersi conto che il suo corpo non era più un corpo. Era solo un contorno. Così se l’era spiegata. Testa, collo, spalle, braccia e gambe mani e piedi il tronco e sì (aveva controllato): anche le parti intime erano al loro posto. Ma il contorno non aveva consistenza. Se n’era accorto quando, per abitudine, aveva fatto per grattarsi la barba mentre rifletteva su dove si trovasse, e le dita erano passate attraverso la pelle. Non c’era voluto molto per capire che poteva attraversare porte, muri, persone.

Persone, già. C’era altra gente. Sia quelli normali, sia quelli col contorno. All’inizio non li distingueva. Poi, osservandoli bene – non è che avesse molto altro da fare – aveva notato che quelli col contorno avevano un che di etereo. Fissandoli a lungo riusciva a guardargli attraverso, e con l’allenamento ci impiegava sempre meno. Quelli col contorno lo salutavano; i normali non lo vedevano, impegnati com’erano. A volte pareva che lo notassero. Si giravano all’improvviso verso di lui, o si toccavano il corpo come a scaldarsi, se lui era vicino. Ma liquidavano la cosa in fretta e senza badarci, per tornare a occuparsi delle loro faccende.

Ogni tanto, mentre passeggiava per quella specie di universo parallelo, vedeva uno di quelli col contorno che fissava il cielo esclamando “il raggio di Dio!” poi il contorno sfumava fino a scomparire, e non lasciava traccia. Evaporava. Immaginava che sarebbe toccato anche a lui, prima o poi, ma non aveva paura: l’espressione che avevano gli altri non era spaventata, tutt’altro. Sembravano…beati.

I nuovi, quelli sì che erano spaventati! Gli era capitato di vederne. Correvano in giro come pazzi, cercando i loro cari e tentando di parlare con loro, di toccarli. Alcuni piangevano, si disperavano, urlavano: “Perché non mi rispondi? Cosa ti ho fatto?”

“Sei morto, cretino!” aveva risposto lui una volta.

“Sono cosa? E tu come lo sai?”

Lui ricordava perfettamente la sua morte. Lo stridere di freni. Lo schianto. La caduta. Facce sconosciute piegate su di lui. Ricordava la sirena dell’ambulanza. La testa che pulsava. Il sapore di sangue in bocca. Si era sentito distante. Si era sentito sollevare.

“È questa la fine?” aveva chiesto.

“O è questo l’inizio?” si era sentito rispondere. “Che differenza fa?”

 

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Una strada nella notte

Una strada nella notte

Il ticchettio dei suoi stivali riecheggiava nell’aria. Era solo e camminava. Perché si era infilato quegli stivali, poi? Sapeva che il viaggio sarebbe stato lungo. E che avrebbe dovuto camminare.

Sono quelle cose che non ti spieghi, si era detto mentre usciva dalla città. Aveva preso a conversare con se stesso per occupare il tempo. E la mente. Soprattutto quella. Se non le metteva una briglia, galoppava indietro, a quel pomeriggio. E lui non aveva nessuna voglia di rivivere quella giornata.

La strada era deserta. Ormai era buio e non vedeva niente, ma non ne aveva bisogno. Sapeva di aver raggiunto la campagna. L’aria si era fatta più fredda qualche chilometro prima.

E invece pensaci, a questo pomeriggio: hai preso 5 paia di boxer, 5 di calze, 2 jeans, 3 magliette, 2 maglioni. Li hai piegati e riposti nello zaino. Hai preso l’ombrello (e sai che non lo userai neanche se a Dio scappasse la pisciata del secolo). Dio, hai persino raccolto un paio di libri…e poi ti sei infilato quei maledetti stivali!

Se quella voce avesse avuto un volto, lo avrebbe scosso da una lato all’altro in segno di disapprovazione.

“Me li ha regalati Lei!” urlò alla notte, e dopo aver pronunciato quella frase un brividio gli gelò il sangue. L’immagine di Lei gli si piantò nella mente e si ritrovò ad annusare l’aria fredda, come se si aspettasse di sentire il suo profumo. Quello che portava la sera in cui si erano conosciuti. Quello della prima notte che erano stati a letto insieme. Sorrise a quel ricordo. Non erano stati “a letto”, ma nella 500 di Lei. Era rimasto dolorante per qualche giorno e si era ritrovato anche una paio di lividi. C’erano posti più comodi di quello, per fare sesso, ma gli era piaciuto farlo lì. Anzi, l’idea era stata sua: la macchina era talmente impregnata di quel profumo che era andato in estasi e non era riuscito a trattenersi.

Lo stesso profumo che indossava quel pomeriggio.

Lui non l’aveva vista, quel giorno. Stava tornando a casa quando si era imbattuto nel mucchio di vestiti, proprio sotto la finestra della loro camera. E allora aveva capito. Era stato scoperto e lei non ne voleva più sapere di lui. E poteva biasimarla?

Si sentì come se avesse ingoiato un mattone. Niente più profumo. Niente più Lei.

Sfilò dalla tasca un pacchetto di Pall Mall e ne accese una.

E se ti era rimasto un barlume di speranza, sappi che si è spento quando sei andato a trovare quello stronzo di Eddy.

Si aggiunse un altro mattone a quello che aveva ingoiato prima.

Eddy era il proprietario del Trendys, il bar dietro l’angolo. Ed era stato lui a spifferarle tutto, ne era certo.

Così, dopo aver raccolto i vestiti sparsi sul marciapiede (e neanche un paio di scarpe da tennis!) era andato verso il bar. Eddy era fuori a fumarsi una sigaretta e gli aveva sorriso ed era stato questo a mandarlo fuori di testa. Uno non può rovinare la vita delle persone e poi farsi due risate!

Si fermò un istante a guardare il cielo. Era limpido e punteggiato da migliaia di stelle. Non poté fare a meno di pensare che un tempo la gente si orientava con quelle. Tirò una lunga boccata e sbuffò il fumo agli astri. Riconobbe il grande carro e sapeva che lì, da qualche parte, ci doveva essere la stella polare.

“Tracci una retta dal davanti del carro. Conti due stelle ed eccola lì!” Puntò la sigaretta accesa verso il cielo e tracciò la linea immaginaria.

“O forse erano tre stelle?”

Che te ne frega? Quella indica il nord e tu non sai neanche dove cazzo sei diretto.

“Lontano”.

Gettò la sigaretta, la schiacciò con la punta dello stivale e si rimise in marcia.

“Forse più lontano di quella dannata stella”.